ariela benigni

Segretario Scientifico dell’Istituto Mario Negri e Coordinatore delle Ricerche di Bergamo e Ranica

Dopo una laurea in Scienze Biologiche conseguita all’Università degli Studi di Milano ed un Dottorato presso l’Università di Maastricht, Ariela Benigni ha iniziato la sua attività di ricerca, in Italia e all’estero.

Attualmente è Segretario Scientifico dell’Istituto Mario Negri e Coordinatore delle Ricerche di Bergamo e Ranica.  

 

 In questa intervista si parla di:

  • il supporto dei familiari nella conciliazione
  • pubblicazioni prestigiose verso utilità delle scoperte
  • trovare l’orgoglio per portare avanti progetti ambiziosi  

 

Quando è nato il suo interesse per le scienze biologiche? Quando poi ha capito di voler fare ricerca?

La passione per le materie scientifiche è nata fin da quando ero bambina. Chissà, forse è merito della scuola elementare che ho frequentato: la scuola Montessori, che si basa sull’indipendenza e sull’apprendimento per scoperta attraverso esperimenti in laboratorio, pensiero logico-matematico e contatto ravvicinato con la natura. 

Mi ha sempre appassionato l’idea di fare la ricercatrice. Se non avessi seguito questa strada, mi sarebbe piaciuto fare l’archeologa, ma avrei dovuto seguire studi umanistici, che mi piacevano meno di quelli scientifici.

Dopo le superiori, mi sono iscritta a Scienze Biologiche all’Università degli Studi di Milano. Lo studio mi appassionava ma era molto teorico per cui ho scelto di fare una tesi sperimentale, allora non obbligatoria, all’Istituto Mario Negri a Milano. 

Ci racconta brevemente la sua carriera, gli ostacoli maggiori e le soddisfazioni più grandi?

Dopo la laurea, ho preso in considerazione l’opportunità di insegnare poiché, si diceva, consente a una donna di conciliare lavoro e famiglia. Non mi è dispiaciuto, ma la ricerca mi mancava, così ho iniziato a frequentare un laboratorio diretto da Giuseppe Remuzzi, presso l’Ospedale di Bergamo. Eravamo una decina e lavoravamo in una minuscola stanzetta dell’ospedale di fronte alle camere che ospitavano i pazienti in dialisi. Li conoscevamo uno ad uno e ogni giorno eravamo esposti alla loro misera qualità di vita. Fu la scintilla che ci spinse a porci un obiettivo: contribuire a migliorare la condizione di pazienti con malattia renale ed evitare, quando possibile, la dialisi.

Poi molti ricercatori del nostro gruppo sono andati all’estero e io vinsi una borsa di studio della Comunità Europea per frequentare un laboratorio a Strasburgo per un anno. Quando tornai partecipai alla grande avventura di inaugurare il Negri Bergamo. A 27 anni contribuire a realizzare un Istituto di ricerca come il Mario Negri nella tua città è stato davvero emozionante!

 

“Il mio consiglio alle giovani donne è quello di non mollare mai, di credere in quello che si fa e di avere l’orgoglio di portare avanti un progetto ambizioso” 

Ariela Benigni

L’incontro e la collaborazione con ricercatori olandesi mi ha consentito di ottenere in seguito il dottorato di ricerca (PhD) presso l’Università di Maastricht.

Nel tempo le responsabilità sono aumentate, con gli incarichi di Segretario Scientifico e Capo Dipartimento di Medicina Molecolare, fino alla recente nomina a Coordinatore delle Ricerche delle sedi di Bergamo e Ranica.

Altri incarichi in ambito internazionale mi hanno portato a coprire posizioni come Senior Fellow presso il Dipartimento di Obstetrics and Gynecology all’Università di Oxford e di collaborare come Consulente con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per un progetto sulla preeclampsia, una complicanza della gravidanza. La commissione dell’agenzia di valutazione francese AERES mi chiese di far parte del Board per la valutazione dell’attività scientifica e della formazione dei ricercatori dell’Ospedale Necker di Parigi.

L’attività di ricerca si è sempre accompagnata all’attività editoriale che mi ha visto attiva in numerosi comitati editoriali di riviste scientifiche internazionali. Attualmente sono Editor in Chief ovvero responsabile editoriale della rivista internazionale Nephron.

Si dice “Nemo propheta in patria”, ma ho avuto anche la grande soddisfazione che la mia città d’origine, Bergamo, ha valorizzato il mio impegno nell’ambito della ricerca scientifica assegnandomi la civica benemerenza, della quale sono fiera. 

La ricerca è anche sacrificio, non solo personale, perché hai poco tempo per dedicarti ad altro, ma soprattutto a chi ti sta vicino. Sono stata una mamma poco presente all’uscita di scuola dei miei figli, ma felice di crescerli con l’entusiasmo che derivava dal mio lavoro, e di dedicare tutta me stessa a loro quando possibile. Conciliare lavoro e famiglia costa fatica ma è possibile, se lo si vuole veramente. Il supporto di mio marito e dalla mia famiglia d’origine, che hanno creduto nel mio lavoro, è stato fondamentale.

Il lavoro di ricerca ti dà grandi soddisfazioni, soprattutto quando i risultati sono così promettenti da fare intravedere nuove cure per i pazienti. Raggiungere questo obiettivo ti dà una grande forza. È un lavoro dinamico, non ti annoi mai, viaggi molto, sei a contatto con persone interessanti che provengono da tutto il mondo, che ti arricchiscono, ciascuno con il proprio bagaglio culturale.

Nell’arco di oltre 30 anni di attività mi sono dedicata con passione alla formazione dei giovani, ho visto crescere tanti studenti universitari, neo-laureati e dottorandi, visitatori stranieri. Oggi, l’Istituto Mario Negri è composto per il 65% da donne (a Bergamo quasi l’80%), a dispetto di tante polemiche, anche recenti, per cui non siamo portate per le materie scientifiche! 

Ha avuto dei mentori o comunque delle figure che hanno influito sulla sua storia professionale?

Nella mia carriera ho incontrato tante persone fuori dal comune. Ricordo, più di tutti, il professor Berry Brenner, nefrologo di Boston, ora in pensione, che è una delle menti più brillanti che io abbia mai conosciuto. Grande ricercatore, tra i suoi meriti quello di aver formato tanti giovani che oggi ricoprono ruoli apicali nelle più prestigiose università americane. È stato per me fonte di grande ispirazione, mi ha insegnato che la cosa veramente importante è scoprire qualcosa di utile per i pazienti, indipendentemente da dove viene pubblicata. Oggi tutti gli scienziati hanno il problema dell’impact factor e cioè di avere una pubblicazione su riviste autorevoli molto lette o citate, mentre lui diceva: “Se fai una scoperta importante, anche se la pubblichi su un giornale che non è nella top list, stai certo che qualcuno la troverà. Se, invece, la scoperta non è importante è meglio che nessuno la trovi”.

Un altro mentore cruciale per la mia formazione è stato il professor Giuseppe Remuzzi con cui tuttora lavoro. Remuzzi mi ha contagiato con la sua passione per la ricerca con un’ottica sempre rivolta agli ammalati, con il suo entusiasmo e lo sguardo lungimirante, rivolto verso l’innovazione, così come la capacità di prefissarsi sempre obiettivi ambiziosi.

 

È sempre stata considerata alla pari dei colleghi o si è sentita in dovere di dimostrare qualcosa di più?

Sinceramente nel mio ambiente ho avuto molte opportunità. Non ultima la recente nomina a Coordinatore delle Ricerche di Bergamo e Ranica e Segretario Scientifico dell’Istituto Mario Negri. Un traguardo che ho condiviso con un’altra ricercatrice, la dottoressa Raffaella Giavazzi, che è stata nominata Coordinatore delle Ricerche di Milano, segno che al Mario Negri è cresciuta la sensibilità per le donne in posizioni apicali. 

Quali sono secondo lei i fattori che limitano la presenza femminile nelle posizioni di rilievo? Cosa è in nostro potere fare per limitare questa disparità?

La nostra società è poco abituata a donne che occupino ruoli decisionali. Quando una donna siede in un board c’è ancora un po’ di diffidenza nei confronti delle sue idee da parte degli elementi maschili, salvo poi che alla distanza le vengono riconosciute doti quali la capacità di coordinare gli sforzi di diversi gruppi che operino in ambiti differenti realizzando progetti multidisciplinari. Queste doti sono meno frequenti tra i colleghi uomini.

Limitante è la mentalità che della casa e della famiglia si debbano occupare le donne. Per fortuna questa opinione sta cambiando.

Che consigli darebbe alle giovani laureate con il desiderio di diventare ricercatrici?

“Never give up”, il mio consiglio alle giovani donne è quello di non mollare mai, di credere in quello che si fa e di avere l’orgoglio di portare avanti un progetto ambizioso. Proprio perché la mentalità che vede la donna responsabile della famiglia sta cambiando, è necessario che anche le donne si sentano più sicure e non si trincerino dietro l’alibi che a loro non sono concesse pari opportunità.

 

 

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